di Renato Palazzi, delteatro.it
14 maggio 2019.

Poco o nulla registrata dai media negli ultimi giorni di aprile, la scomparsa di Franco Passatore merita invece di essere ricordata perché fu tra i protagonisti di una delle esperienze artistiche e pedagogiche più rivoluzionarie del tumultuoso periodo fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta


Non stupisce che sia passata sotto silenzio, nei mezzi d’informazione, la scomparsa, avvenuta qualche giorno fa, di Franco Passatore, un uomo di teatro importante, ma molto anziano, ormai novantenne, da tempo fuori dall’ambiente. Il suo nome dirà poco agli spettatori di oggi, ma lui è stato al centro di una delle esperienze artistiche e pedagogiche più rivoluzionarie del tumultuoso periodo fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta. Passatore è stato un attore e regista dalla vena fortemente ironica e giocosa. Milanese, aveva mosso i primi passi, all’inizio degli anni Cinquanta, in alcuni spettacoli diretti da Streher al Piccolo Teatro, Morte di Danton di Büchner, L’oro matto di Silvio Giovaninetti, Frana allo scalo nord di Ugo Betti, Enrico IV di Shakespeare. Aveva quindi iniziato una lunga collaborazione con lo Stabile di Torino, interpretando fra l’altro La resistibile ascesa di Arturo Ui di Brecht con la regia di Gianfranco De Bosio, nel ’61, Sicario senza paga e Il re muore di Ionesco, entrambi con la regia di Josè Quaglio, nel ’62 e ’63, Giorni felici di Beckett con la regia di Roger Blin, nel ’65, e poi il grandioso Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus con la regia di Ronconi, nel ’90. L’ultima volta che era apparso sulla scena credo sia stato nel 2006 quando aveva offerto una irresistibile caratterizzazione di alcuni personaggi de Lo specchio del diavolo, un saggio sull’economia di Giorgio Ruffolo trasformato da Ronconi in un variegato canovaccio teatrale. Come regista aveva realizzato nell’87 Le sedie di Ionesco, un autore che evidentemente sentiva appartenergli, ma era stato attivo soprattutto sul fronte del teatro per ragazzi: da ricordare le sue deliziose messinscene di due commedie di Sergio Tofano, Una losca congiura di Barbariccia contro Bonaventura, nel ’79, e L’isola dei pappagalli con Bonaventura prigioniero degli antropofagi, nell’86: quest’ultimo spettacolo aveva visto fra l’altro l’esordio attorale di Antonio Latella, che proprio in ricordo di quei primi passi sta riallestendo il testo per lo Stabile di Torino. Ma il vero motivo per cui Franco Passatore occupa un posto di rilievo nella storia della scena italiana del secondo Novecento è per il ruolo determinante che ha avuto nella nascita di quel fenomeno straordinario, e oggi forse non abbastanza studiato, un po’ dimenticato, che è stata la cosiddetta animazione teatrale. Erano gli anni a cavallo del Sessantotto, in cui il teatro si sforzava di uscire dai propri confini ristretti per cercare nuova linfa nelle esperienze di decentramento, negli interventi culturali nei quartieri periferici, negli spettacoli per le fabbriche e per le scuole. Passatore, che di quelle iniziative per il mondo dell’infanzia era stato un pioniere e un elemento trainante, aveva avvertito all’improvviso l’esigenza di una svolta, di una rottura dello schema consueto che vedeva i bambini spettatori passivi di prodotti confezionati per loro da compagnie di adulti, per tentare invece la strada di una teatralità di cui fossero soggetti e protagonisti i bambini stessi. Credo che quella che lui chiamava la sua uscita dal teatro, seppur meno clamorosa, abbia avuto un impatto non inferiore all’uscita di Dario Fo dai circuiti “borghesi”. Il passaggio dagli spettacoli alle cosiddette “spettacolazioni”, non consisteva nell’utilizzare – come qualcuno faceva – gli strumenti del teatro per studiare meglio le materie scolastiche o per imparare una tecnica recitativa: anzi, al contrario, il lavoro di Passatore e del suo compagno di avventura di allora, Silvio Destefanis, mirava a scatenare la creatività spontanea dei bambini, senza vincoli o finalità strumentali. I presupposti su cui si fondava l’attività del gruppo Passatore-Destefanis, poi divenuto – con l’ingresso di altri componenti, Ave Fontana, Flavia De Lucis, Diego Maj-Teatro Gioco Vita –, erano chiari: all’adulto toccava solo il compito di stimolare, con le parole, con la sistemazione dell’ambiente, con alcuni oggetti d’uso, l’immaginario dei bambini, offrendo loro tutt’al più i materiali, carta, stoffa, forbici per tagliare, necessari a tradurre le proprie fantasie in azioni concrete. Tutto il resto era affidato a una libertà espressiva che non doveva essere in alcun modo condizionata o indirizzata a un esito programmato. Ricordo bene la prima volta che ho visto all’opera i due, nel ’70, durante un Festival di Teatro per Ragazzi che veniva organizzato dalla Biennale di Venezia: erano in uno spiazzo circondato da transenne, in compagnia di un cavallo, impegnati a tenere a bada – si fa per dire – decine di ragazzini scatenati, in un’esplosione di energia ludica e di incontenibile fermento immaginativo. Lavoravo, a quel tempo, per il Piccolo Teatro, e rimasi talmente folgorato da ciò che vidi che convinsi subito Paolo Grassi a invitarli a sviluppare un progetto nelle scuole milanesi per cinque mesi consecutivi. Ebbi anche la fortuna di lavorare spesso “sul campo” al loro fianco. Perché ho parlato di un’esperienza rivoluzionaria? Perché i procedimenti elaborati da Passatore e Destefanis – che avrebbero presto trovato una vasta diffusione in Italia, dando vita a modelli di interventi diversi da parte di vari operatori, da Loredana Perissinotto a Remo Rostagno, da Giuliano Scabia al musicista Sergio Liberovici – usciva dall’ambito ristretto di una semplice prassi pedagogica per acquisire un valore prettamente politico: inlinea con le ideologie anti-autoritarie di quegli anni, voleva essere una messa in discussione radicale e in qualche modo definitiva del ruolo della scuola, dell’insegnante come depositario del sapere, dei meccanismi della trasmissione culturale, una drastica presa di posizione contro «la repressione del sistema educativo». Le riflessioni su questo tema, approfondite anche in diversi suoi libri, si rivolgevano soprattutto alle maestre, riguardavano in primo luogo le dinamiche formative. Ma Passatore si proponeva al tempo stesso di destabilizzare e minare alla base le strutture portanti del teatro: il suo obiettivo era quello di innescare una creatività diffusa che travolgesse le categorie artistiche codificate, attore, autore, regista, ma anche pittore o fotografo, che superasse e scavalcasse l’idea stessa di professionismo, offrendo a chiunque gli strumenti per esternare pubblicamente i propri vissuti e le proprie emozioni. Questa visione nasceva sulla scorta di una frase di Rousseau: «Piantate un palo adorno di fiori in mezzo a una piazza, riunite attorno il popolo e avrete una festa. Ancor meglio, offrite gli spettatori come spettacolo, fateli attori essi stessi, fate che ciascuno si veda e si ami negli altri, affinché tutti siano più uniti». Ma nasceva anche nel segno di Engels e del suo sogno di una società dove sia possibile «fare una cosa oggi ed un’altra domani, cacciare al mattino, pescare nel pomeriggio, allevare bestiame alla sera, ragionare dopo pranzo, senza mai diventare cacciatore, pescatore, pastore o critico». Perciò sono da sempre convinto che l’animazione sia stata l’unica vera emanazione teatrale del Sessantotto. Si trattava, ovviamente, di una concezione del teatro e della scuola così estrema che difficilmente avrebbe potuto trovare a lungo una piena applicazione nella realtà quotidiana. E infatti dopo un certo tempo la sua spinta si esaurì. Ma a ben vedere quell’idea di un teatro partecipativo, dove agissero persone e non attori, ha trovato uno sbocco concreto, nei nostri anni, nelle tante esperienze che, da Romeo Castellucci a Pippo Delbono, da Armando Punzo a Milo Rau, puntano a scavalcare l’artificio rappresentativo per portare alla ribalta dei frammenti di realtà, delle autentiche schegge di vita.