Martedì 11 aprile 2023, alle ore 19.30, debutta al Teatro Gobetti Uno spettacolo di fantascienza. Quante ne sanno i trichechi scritto e diretto da Liv Ferracchiati, che sarà in scena insieme ad Andrea Cosentino e Petra Valentini. Il dramaturg è Giulio Sonno, scene e costumi sono di Licia Menegazzo, il disegno luci è di Lucio Diana, il suono è di Giacomo Agnifili. Lo spettacolo, prodotto da Marche Teatro, da CSS Teatro Stabile d’Innovazione del Friuli Venezia Giulia e dal Teatro Metastasio di Prato, sarà replicato per la stagione in abbonamento del Teatro Stabile di Torino fino a domenica 16 aprile 2023.

 

Note di regia e drammaturgia di Liv Ferracchiati

Ho iniziato a scrivere questo testo in occasione dell’École des Maîtres, ovvero per un’occasione di studio. Capita raramente di potersi dedicare alla sperimentazione, alla ricerca, senza l’ansia di ottenere un risultato. Per questo ho azzardato un tema complesso: la rappresentazione identitaria. Un argomento talmente vasto che, quando l’occasione di studio è terminata, mi sono riproposto di tornarci e di approfondirlo. La prima immagine viene da un appunto di tanti anni fa rubato a Čechov: in una lettera scriveva di voler dar vita a un dramma ambientato su una nave diretta al polo Nord. A bordo ci sarebbero stati due uomini, rispettivamente marito e amante della stessa donna, che sarebbe morta durante la traversata. Sul mio quaderno degli appunti (e spero di non somigliare troppo a Trigorin, che a me è poco simpatico), più o meno alla terza pagina, si legge:

Cechov.
Nave verso Polo Nord.
Triangolo.
Fine del mondo.
Donna però non muore.
Sistema di pensiero che crolla.
Scontro\incontro tra due modelli di Uomo.
Patriarcato\capitalismo vs nuovi modelli di società?
Anche no. 2 palle.

Ognuno prende gli appunti come si merita. A ogni modo, se decifro bene le mie intenzioni, in questa nota del 2018, c’era già in embrione Uno spettacolo di fantascienza, che poggia le sue fondamenta su una suggestione di Čechov, purtroppo mai venuta alla luce. La fine del mondo che ho tentato di raccontare è data da uno spostamento di punto di vista e, sicuramente, nasce dai miei approfondimenti sulla costruzione e scomposizione dell’identità di genere, ma si amplia a più livelli. Per comunicare scegliamo, più o meno coscientemente, delle rappresentazioni di noi. Detto in altro modo, ci scegliamo delle forme, quindi delle convenzioni. Queste convenzioni a volte determinano il nostro modo di apparire, altre, ad esempio, quello di concepire il sistema spazio-tempo, vedi la divisione della giornata in ventiquattro ore o la definizione dei punti cardinali (anche se viviamo in un pianeta che orbita in un universo senza punti di riferimento).

Credo che questo spettacolo provi a riportare la sensazione di sgomento di quando ho intuito che niente di quanto pensavo potesse rappresentarmi era “autentico”. Io, come l’uomo in completo di fronte a me ora in treno, abbiamo pensato che fosse naturale indossare una giacca e dei pantaloni, ma solo ora, all’altezza di Terontola, ci accorgiamo che quella giacca è un segno che qualcun altro ha scelto per noi, prima di noi. Nella drammaturgia ci sono continui cambi di registro e linguaggio, perché si gioca anche con le convenzioni della scrittura e della scena. Ad esempio, se da sempre, la neve, quando cade dalla tramoggia, indica un momento di dilatata poesia, noi illuminiamo la tramoggia e mettiamo a vista il tecnico che la scuote, così possiamo ridere della ripetizione e convenzione del gesto, della sua prevedibilità. Ma possiamo commuoverci, magari appena appena, malgrado lo svelamento della finzione, quando alla fine, sulle note di I’m the walrus nevica per l’ultima volta su un piccolo tricheco di peluche.

 

CS_Uno spettacolo di fantascienza