Da giovedì 5 a lunedì 9 ottobre 2023, in apertura della programmazione del Teatro Gobetti di Torino, andrà in scena in prima nazionale, per la Stagione 2023/2024 dello Stabile di Torino, VajontS23, libera reinterpretazione de Il racconto del Vajont di Marco Paolini e Gabriele Vacis, con il contributo di Marco Martinelli. In scena Davide Antenucci, Andrea Caiazzo, Pietro Maccabei, Eva Meskhi, Erica Nava, Enrica Rebaudo, Edoardo Roti, Giacomo Zandonà, con cui Marco Paolini condividerà la scena sabato 7 ottobre, nella replica serale. La scenofonia e gli ambienti sono di Roberto Tarasco, il suono di Riccardo Di Gianni. Lo spettacolo è prodotto dal Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale in collaborazione con PEM Impresa Sociale e fa parte del progetto VajontS23 di Marco Paolini per La Fabbrica del Mondo realizzato in collaborazione con Jolefilm e Fondazione Vajont.

Il 9 ottobre 1963 dal Monte Toc si staccarono 260 milioni di metri cubi di roccia che piombarono nella diga del Vajont, sollevando un’onda che distrusse cinque paesi e uccise duemila persone. Nel 1993 Marco Paolini e Gabriele Vacis diedero vita a un’orazione civile su quella tragedia, tra le più memorabili del nostro teatro: Il racconto del Vajont. A sessant’anni dal disastro, la storia del Vajont riscritta, 25 anni dopo il racconto televisivo, da Marco Paolini con la collaborazione di Marco Martinelli, drammaturgo e regista del Teatro delle Albe, non è più solo un racconto di memoria e di denuncia sociale, ma diventa una sveglia. La narrazione di quel che è accaduto si moltiplica in un coro di tanti racconti, in un evento diffuso che coinvolge i più importanti palcoscenici italiani, per richiamare l’attenzione su quel che potrebbe accadere. «Quella del Vajont – spiega Paolini – è la storia di un avvenimento che inizia lentamente e poi accelera. Inesorabile. Si sono ignorati i segni e, quando si è presa coscienza, era troppo tardi. In tempo di crisi climatica, non si possono ripetere le inerzie, non possiamo permetterci di calcolare il rischio con l’ipotesi meno pericolosa tra tante. Tra le tante scartate perché inconcepibili, non perché impossibili». VajontS 23 sarà come un canovaccio. Ci sarà chi lo metterà in scena integralmente, chi lo userà come uno spunto e lo legherà alle tante tragedie annunciate che si sono succedute dal 1963 a oggi.

Gabriele Vacis, insieme ai giovani attori di PEM, darà voce a questa narrazione e alle riflessioni che fa maturare: la struttura drammaturgica avrà come nucleo centrale il racconto del Vajont a cui ciascuno degli artisti aggiungerà storie personali.

 

Scrivono gli attori di PEM: «Siamo una generazione di protetti. Il rischio che conosciamo è diverso da quello vissuto dalle generazioni che ci hanno preceduti. I nostri genitori si sono sempre premurati di tutelare il nostro corpo, e di instillare in noi un retropensiero di auto conservazione che limita ogni nostra manifestazione nelle sue punte più spigolose. Il tentativo di protezione degli adulti si è rivelato egoismo sociale: i giovani sono sempre meno e perciò vanno protetti. Ma protetti da cosa? E soprattutto: come? Per difendersi serve scoprire.

Il racconto del Vajont per noi è una scoperta: la ribellione va costruita. A dire “no” bisogna imparare, soprattutto se dall’altra parte c’è un grande sistema. Il tempo delle magnifiche manifestazioni di corpi in piazza che gridano sembra finito. E allora noi cosa possiamo fare? Dire di no non basta. La rivoluzione va fondata. Il racconto del Vajont, messo in scena con Gabriele Vacis, ci permette di fondare la manifestazione del dissenso attraverso la costruzione di ponti tra le generazioni. L’unica possibilità che ha la rivoluzione di passare da distruzione a costruzione, e dunque trasformarsi in cambiamento, è essere tramandata di generazione in generazione. L’arco lungo della rivoluzione si costruisce attraverso il racconto, che permette di fondare il senso.

Le responsabilità esistono: bisogna riconoscerle e assumersele. Questa storia parla delle responsabilità tutte umane spacciate per colpe date alla natura. Un discorso che facilmente riporta alla mente l’approccio con cui si affrontano le tematiche attuali, prima tra tutte il cambiamento climatico.

Che i giovani di PEM e Gabriele Vacis, che sarà in scena con loro, raccontino la tragedia del Vajont insieme è una forma di educazione alla ribellione. Un ritorno alla maleducazione civile capace di generare cambiamenti fondati nel tempo e illuminati dalla prospettiva del futuro. Forti della coralità che sostituisce l’azione individuale. Vacis ha scritto la storia insieme a Marco Paolini già 30 anni fa. La sua presenza racconta di quel momento e di quei ricordi, arricchendo il racconto di uno spessore che ha il valore del tempo che passa, e viene affidato ai giovani perché possano portarlo avanti e renderlo forza generatrice. Una storia che sopravvive alle generazioni costruisce idee, cuori e corpi capaci di cambiare le cose. Questo è il tentativo».

 

«Negli anni in cui pensavamo al Racconto del Vajont – scrive Gabriele Vacis – si affermava anche la “televisione di parola”, fluviali talk show in cui si chiacchierava all’infinito; un vuoto pneumatico creato dalla massa specifica della parola teatrale si traduceva, in televisione, in un profluvio di vaniloqui che invece sottraeva peso al discorso, fino ad annullarlo. Credo che il successo, anche televisivo, del Racconto del Vajont, nascesse dalla sorpresa di una parola in equilibrio tra il senso e il suono. Il che generava un “discorso” immediatamente comprensibile. Ma dove la comprensione non era tolleranza indulgente e la comprensibilità non era facile accesso che banalizza. La comprensione per noi aveva un gusto arcaico, come il suono di lingue dimenticate. In genere riesce molto più facile capire piuttosto che comprendere: è così che assorbiamo le onnipresenti immagini pubblicitarie, così guardiamo distrattamente televisori, computer, iPhone e iPad. Comprendere era qualcosa come spalancare le fauci fino a farsi scricchiolare i tendini. Vedere fino a distinguere le congiunzioni di una realtà che sembrava sbriciolarsi davanti ai nostri occhi. Ascoltare fino a sentire molte voci contemporaneamente: quelle che venivano da lontano, dalla televisione, dal Web, ma anche quella che arriva dalle persone che ci sono accanto… Quella che viene da altri tempi, dal passato o dal futuro, ma anche quella parola che viene pronunciata qui, adesso. Credo che in questi trent’anni dal debutto dello spettacolo originale la narrazione si sia affermata come strumento per produrre tempo, e quindi realtà. Che è poi un gesto antico come il mondo. Qualche volta, soprattutto nelle parole di certi politici che intendono la narrazione come fabbricazione di verità a proprio uso e consumo, si ha addirittura l’impressione di un abuso della pratica narrativa. E in effetti quando la narrativa sia slegata dalla comprensione può produrre esiti inquietanti. Ma alla fine credo che la pratica del narrare significhi riconciliarsi con il tempo, con il succedersi delle generazioni. L’unica possibilità per uscire dalle secche della contrapposizione tra cogliere l’attimo e coltivare la memoria o progettare il futuro. Forse riconciliarsi con il tempo significa semplicemente “stare”, coltivarne la consapevolezza».

 

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